Matera

Capitale Europea della Cultura per il 2019

Matera - veduta Sassi

Escursione ai Sassi di Matera

Rendi la vacanza al Sira Resort ancora più interessante con un'escursione ai Sassi di Matera.
Prenotando l'escursione all'atto della conferma, per soggiorni settimanali in giugno, luglio e settembre 2016, si ha diritto ad una riduzione.

Costo escursione:
  • adulti € 30,00 € 23,00
  • bambini 6/10 anni € 15,00 € 11,50
  • bambini 0/6 anni gratis
  • La durata dell'escursione sarà di 2 ore
L'offerta comprende:

partenza in autobus dal resort con destinazione Matera, Capitale Europea della Cultura 2019, famosa per i Sassi, già Patrimonio Mondiale Unesco nel 1993. Gli antichi rioni pietrosi sono caratterizzati da case scavate nella roccia calcarea e chiese rupestri che la rendono unica al mondo. Questa naturale conformazione, che rievoca scenari biblici, li ha resi da sempre set ideale per importanti film. Tra i tanti ricordiamo “Il Vangelo secondo Matteo” di Pierpaolo Pasolini, “La Passione di Cristo” di Mel Gibson e "Ben Hur" di Timur Bekmambetov.

Visite previste:
- La Casa Grotta Tipicamente arredata – Antica abitazione contadina che illustra la realtà del libro “Cristo si è fermato ad Eboli”
- La Chiesa Rupestre
- La Cantina Storica del 1700
- Spiegazione dell’Artigianato Artistico: la storia del Cucù

L'offerta non comprende: gli ingressi facoltativi da pagare in loco
a partire da € 23,00

Matera è una città murgiana, simile, sotto molti aspetti, alle città della Puglia che la circondano, con cui costituisce una sorta di unità interurbana per paesaggio, economia e storia.
Il riferimento è ai paesi di Gravina, Altamura, Santeramo, Laterza, Ginosa e Castellaneta, alcuni dei quali, in passato, furono casali appartenenti alla città di Matera, a sua volta parte integrante della Terra d’Otranto.
Né è di poco conto il fatto che, nella suddivisione per diocesi, alcuni di quei paesi, quali Laterza e Ginosa, fino a qualche decennio fa, facevano ancora parte della Chiesa materana. Stante la natura tufacea della roccia, sulla Murgia si sono formate molte cavità o grotte naturali, che, molto simili a quelle che si trovano nell’area carsica, hanno facilitato il rifugio degli uomini al tempo della civiltà delle caverne. Matera, di conseguenza, porta tutti i segni di una storia lunghissima, che comincia dall’età della pietra. Presso Murgia Timone e Murgecchia, e non solo lì, infatti, l’archeologo materano Domenico Ridola (1841-1932) trovò alcuni segni di villaggi paleolitici e sicuri insediamenti neolitici. Non è da sottovalutare, al riguardo, il fatto che, a pochi chilometri dalla città, nel territorio della bella Altamura, in un anfratto della Murgia, qualche anno fa fu trovato uno dei più antichi scheletri umani, che qualcuno dice essere il più antico del mondo. Né, a spiegazione di quegli antichissimi insediamenti umani, ha importanza credere che quell’area pietrosa, in tempi remoti, fosse coperta di boschi.
L’orografia della Murgia, il colore stesso della roccia, caverne e anfratti, rendevano facile la mimetizzazione degli abitanti, protetti dalla asprezza stessa del territorio e dalla presenza del torrente Gravina, che, per le sue pareti a strapiombo, è molto simile ad uno dei tanti canyons del Colorado.
Alla natura aspra del territorio, peraltro, si aggiungeva, a favorire gli insediamenti umani, la presenza di sorgenti d’acqua, fra le quali quella abbondante dello Jurio (“gorgo”), da cui Matera attinse acqua fino all’arrivo dell’acquedotto pugliese nel 1927, cioè fino a ottant’anni fa. Nei primi tempi, gli insediamenti umani si allogarono sull’uno e sull’altro versante della Gravina. Poi, però, per difendersi meglio dagli arrivi di popoli dell’oriente che, sbarcati sulle rive dell’Adriatico, si spandevano verso l’interno, gli insediamenti umani si restrinsero al di qua della Gravina, sul territorio della odierna Matera. Ciò durò fino a quando, dismessa l’attività di cacciatori o raccoglitori di frutti spontanei, si scoprì l’agricoltura. Gli uomini, allora, si proiettarono verso la pianura e le rotonde colline circostanti, ove erano terreni coltivabili. (Testi tratti da Matera Siti)


Le Cave di tufo, il segno del lontano adattamento dell’uomo nel territorio della Murgia materana sono l’esempio di una alterazione positiva che ha creato oggi luoghi di alta valenza paesaggistica. Le case, le chiese, i palazzi ottocenteschi, l’Abbazia di Montescaglioso, i Sassi di Matera, sono il simbolo di un lavoro manuale che ha estratto nei secoli dalla Murgia conci di calcarenite detti tufi. La calcarenite è un sedimento carbonatico, tenero, di colore bianco giallastro, a volte grigio, con granulometria e grado di cementazione variabili da luogo a luogo, facilmente lavorabile, tanto che fu agevole, fin da epoche preistoriche, cavarla manualmente dalle grotte naturali per adattarle meglio alle esigenze umane.
Successivamente, al fine di ampliare gli spazi abitativi e renderli più confortevoli, si cominciò ad estrarre blocchi di roccia utilizzabili per la costruzione.
Dapprima furono le stesse grotte occupate a fornire il materiale per completare e tamponare l’entrata dell’abitazione, successivamente, in concomitanza con l’espansione sul piano della città di Matera e la costruzione dei grandi edifici ecclesiastici, i cavamonti individuarono alcune aree esterne alle cinte urbane che potessero fornire un tufo con carattreristiche più idonee all’uso ed in quantità sufficiente.
Nelle cave di Contrada La Vaglia sono evidenti i segni dell’estrazione dei conci a colpi di piccone, tecnica usata fino al dopoguerra dai cosiddetti cavamonti. I blocchi venivano trasportati a dorso di mulo o per mezzo di traini qualora il carico fosse maggiore. Nelle pause di lavoro, le grotte adiacenti alla cava, alimentavano il senso artistico e creativo degli operai che con scalpelli e mazzole decoravano le pareti di questi luoghi di ritrovo o ricavavano, sui blocchi di tufo meno tenero, ornamenti in bassorilievo: frontoni, fregi o i caratteristici rosoni che collocati davanti alle porte d’ingresso delle abitazioni servivano da attracco per le bestie da soma. Oggi, ciò che resta, sono ampi spazi e grandi sculture, che sembrano volere raccontare e testimoniare il duro lavoro dei cavamonti e i segni, geometrie irreali, lasciati sulle chiare pareti verticali.
Negli anni cinquanta si passò all’estrazione meccanizzata, tecnica che si avvalse dell’utilizzo di seghe a motore scorrevoli su binari che determinavano tagli perfettamente paralleli. Sia in agro di Montescaglioso che di Matera alcune sono ancora oggi in attività. Ne sono esempio le cave ubicate in contrada Pedale della Palomba e caratterizzate da un sistema di avanzamento a terrazzi degradanti a valle. Il percorso delle cave riserva così ai visitatori paesaggi, colori e atmosfere unici in cui, l’evidente binomio uomo-natura, diventa testimonianza dell’uso misurato del territorio e delle sue risorse.


La crisi del Trecento involse tutto il Sud e, quindi, anche Matera. La rinascita partì dal 1443, quando, dopo una lunga serie di guerre intestine tra dinastie e rami diversi degli Angioini, si giunse alla vittoria di Alfonso d’Aragona e, quindi, ad un periodo di relativa tranquillità. Ci fu un umanesimo e un rinascimento meridionale, che, pur sviluppatosi prevalentemente a Napoli, ebbe propaggini anche in periferia. Matera, nel ’500, ebbe le sue scuole di umanisti con Lucio Sacco, Luca Massaro e Orazio Goffredi ed ebbe grandi e nobili figure di intellettuali in Altobello Persio e nei figli Ascanio, Antonio, Domizio e Giulio. Né si possono dimenticare Donato Frisonio ed Eustachio Verricelli. La popolazione, intanto, aumentava in modo considerevole, anche per le immigrazioni di albanesi e serbo-croati o schiavoni, sospinti all’attraversamento dell’Adriatico dalle invasioni turche. Fu allora che i due Sassi furono letteralmente invasi, diventando parte della città. Fino a qualche decennio prima, infatti, essi erano aree extra moenia, adibite a depositi di derrate, riserve d’acqua e allevamento di animali, punteggiate, qua e là, da conventi e poche abitazioni. A dividerli, a difesa della Civita, erano due torrenti o “gran valloni”o ”graviglioni”, che scendevano lungo l’odierna via D’Addozio e lungo l’odierna via Bruno Buozzi, non per nulla conosciuta, in passato, e ancor oggi da qualche anziano, come via delle Conche. I “Sassi” erano i saxa latini: rocce, pietre, zona pietrosa. Era lo stesso ambiente della Murgia. Si erano distinti in Sasso Barisano e Sasso Caveoso. Il Sasso Barisano, come è noto, fu così chiamato, perché guarda verso Bari. E’ la spiegazione più frequentata. In realtà è spiegazione abbastanza improbabile, perché più accreditata è l’ipotesi della presenza, in passato, di una potente gens Varisia. Quanto al Sasso Caveoso, sarebbe così detto perché guarda verso Mons Caveosus, cioè Montescaglioso, “monte rupestre e cavernoso”. Ma non è necessario pensare a questo. Più semplicemente, si può pensare ad un ambiente pieno di caveae e più accidentato che mai, come da tradizione popolare, che guardò al Sasso Caveoso come alla parte più degradata, depressa e meno “civile” dell’abitato. Almeno così la pensavano gli abitanti del Sasso Barisano, che si ritenevano socialmente più “in alto” e più vicini al “piano”. I residenti nel Sasso Barisano erano quelli di “questa parte”; gli altri, spregiativamente, erano quelli “dell’altra parte”. Lo spettacolo che i due quartieri offrivano, assolutamente inedito, fu variamente visto e giudicato. Che un forestiero, arrivando a Matera, ne rimanesse orribilmente impressionato, non è meraviglia; che gli abitanti non si rendessero conto delle rovinose condizioni subumane in cui vivevano quali trogloditi (la definizione fu, fra gli altri, anche del Pascoli), è altrettanto normale, dati i tempi; che i “signori”, infine, abitanti sul piano, godessero del loro privilegio e guardassero verso gli abitanti sottostanti con l’orgoglio della naturale diversità, estasiati dallo spettacolo di luci, è un’altra verità, forse voluta, forse imposta. Ad una certa ora, infatti - scriveva Leandro Alberti già nel 1538, - “secondo che piaceva ai maggiori della città, comandava il banditore che ciascuna famiglia di quelle due valli, tramontato il sole, incontinente dimostrassero il lume avanti le loro case. Onde, così eseguito, pareva [...] di vedere sotto i piedi il cielo pieno di vaghe stelle distinte in diverse file”. Il tempo avrebbe fatto dei Sassi un centro storico, o, come vorrebbero alcuni, un centro antico; l’etica e la coscienza civile ne hanno fatto l’emblema di una condizione sociale di subalternità e quasi schiavitù, comune a tutte le plebi meridionali, e non solo. Essi accolsero migliaia di infelici alla ricerca di un qualsivoglia rifugio, che sembrava ed era grotta. La fame di un tetto, anzi, quale che fosse, spinse persino ad allargare i confini dei Sassi, fino alla creazione di un nuovo casale, detto appunto Casalnuovo, che, del tutto periferico e il più malsano, fu assegnato agli immigrati schiavoni, spesso costretti a convertirsi al cattolicesimo. Si crearono problemi di superaffolamento e promiscuità tra uomini e animali. La città, che, secondo alcuni calcoli, aveva solo 3.530 abitanti nel 1447, passò a 9.490 nel 1532, a 12.475 nel 1561, a 15.500 nel 1595. Tommaso Stigliani (1573-1651) ne contava 18.000 nel 1639, confermati, per tal numero, dal vescovo Simone Carafa nella sua relatio ad limina del 1645. Fu in quegli anni che Matera, giusta la descrizione che nel 1595 ne avrebbe fatto Eustachio Verricelli, assunse la figura di un grosso uccello, del quale la testa era sulla Cattedrale, il corpo, senza coda, scendeva lungo le mura della Civita, le ali erano i due rigonfiamenti dei Sassi, al di là delle mura.
L’ampio numero delle Chiese Rupestri a Matera e nell’immediato territorio circostante è uno dei tratti distintivi e più spettacolari dell’insediamento rupestre nell’area. Circa centocinquanta siti di culto compresi in un lasso temporale che dall’alto medioevo giunge fino al secolo XIX, strettamente legati ad ogni fase storica, sociale e religiosa del territorio. Le acquisizioni critiche più recenti, sulla base di riscontri effettuati sulle fonti, i dati archeologici ed architettonici, disegnano un panorama molto complesso ed articolato, svincolato da un’accezione esclusivamente monastica e bizantina, nella quale il fenomeno era stato circoscritto dalle prime ricerche risalenti alla fine del secolo XIX. Nel patrimonio delle chiese rupestri materane, converge l’intera articolazione delle componenti etniche, religiose e istituzionali dell’area: monasteri, santuari, antiche parrocchie, istituzioni vescovili, sono tutti elementi presenti nella committenza, possesso, gestione, ufficiatura delle chiese rupestri. I luoghi di culto rupestri oltre che essere collegati all’insediamento nel territorio di tante istituzioni ecclesiastiche e civili, soddisfano soprattutto un bisogno afferente la popolazione locale, sparpagliata su un territorio molto vasto e quindi accompagnano, nella loro collocazione, la formazione degli assetti del territorio. Le fonti più antiche finora disponibili attestano fin dal secolo VIII insediamenti rupestri collegati alla presenza di monasteri benedettini. Gli affreschi della Cripta del Peccato Originale collegano l’ipogeo ad una delle grandi comunità monastiche benedettine longobarde dell’area beneventana. Recentemente restaurata, la Cripta del Peccato originale è considerata la 'Cappella Sistina' dell'arte rupestre. L’abbazia di S. Sofia di Benevento nel 774 possiede a Matera la chiesa di S. Maria e S. Michele, generalmente individuata nella parte più antica di S. Maria della Vaglia. Il monastero di S.Vincenzo al Volturno nell’893 detiene le chiese di S. Elia, un ipogeo tuttora esistente sulla Murgia e la chiesa di S. Pietro in Matina da identificare con una delle cripte ancora intitolate all’Apostolo. Nei pochi resti delle abbazia di S. Eustachio alla Posterga e di S. Maria de Armeniis si riconoscono significative componenti rupestri come pure nel monastero benedettino femminile di S. Lucia il cui insediamento più antico, la chiesa e le grotte delle Malve, appare quasi interamente in grotta. Di origine benedettina sono anche le cripte di S. Gennaro al Bradano e di S. Stasio alla Gravina, antichi possedimenti del monastero di S. Lucia, e le chiese dello Spirito Santo e di S. Maria delle Virtù, passata poi alle monache di Accon. Infine anche l’abbazia di Montescaglioso, fondata nel secolo XI, è in possesso di chiese rupestri localizzate nella Murgia di S. Andrea. Nelle cripte benedettine meglio conservate si notano impianti basilicali a tre navate e cicli affrescati nei quali ricorrono iconografie tipiche della tradizione monastica latina. Pur non esistendo testimonianze dirette nelle fonti circa la presenza di monasteri italogreci nel territorio circostante Matera, alcune chiese rupestri sono da mettere in rapporto alla componente etnica bizantina dell’area. A questo ambito appartengono probabilmente le cripte del Cappuccino Vecchio, di S. Falcione, di S. Maria di Olivares, S. Nicola dei Greci, le quattro chiese eremitiche dell’insediamento monastico del vallone della Loe datate tra IX e X secolo e la fase più antica di S. Barbara antecedente la realizzazione degli affreschi tuttora presenti nella chiesa. Al villaggio Saraceno sono presenti chiese bizantine utilizzate a servizio della popolazione rurale come S. Luca ove si nota addirittura un piccolo battistero, e la chiesa di S. Nicola, in luogo di difficile accesso, probabile rifugio del monaco eremita. Altre chiese rupestri sono piccoli santuari rurali, qualche volta dedicati all’Arcangelo ma soprattutto intitolati alla Vergine. Cripte micaeliche risalenti ai secoli XI-XII sono all’Ofra, presso la grotta dei Pipistrelli e a Cozzo S. Angelo, nelle vicinanze di Montescaglioso. Tra i santuari mariani rupestri, di particolare importanza il sito sul quale è costruito l’odierno santuario della Palomba e l’imponente cripta di S. Maria della Vaglia che tenuto conto della identificazione con la chiesa citata nel documento dei Duchi di Benevento del 774, potrebbe essere il più antico santuario mariano di Matera. Altri santuari frequentati rispettivamente dalle popolazioni di Matera e Montescaglioso sono Cristo la Selva e la Madonna della Murgia. Nella città, chiese di notevole fattura e qualità sono il complesso del Convicinio S. Antonio, dell’Idris, di S. Giovanni in Monterrone e di S. Nicola dei Greci. Fasi rupestri significative si riconoscono anche in alcune delle principali chiese parrocchiali quali S. Pietro Barisano e S. Pietro Caveoso mentre anche nei monasteri di S. Francesco e S. Agostino, sono state rintracciate cripte preesistenti all’insediamento della comunità. Innumerevoli le chiese scavate in prossimità di piccoli insediamenti rurali o lungo gli antichi percorsi che legano la città alla campagna. In queste si riconoscono elementi architettonici desunti dall’architettura 'fuori terra' ma soprattutto uno scavo finalizzato a creare nel sito, con un dispendio minimo di risorse, gli elementi più indispensabili all’officiatura del luogo di culto. Lo scavo dell’aula qualche volta è accompagnato dalla costruzione in muratura della facciata o di altre strutture interne. Negli impianti si ritrovano gli elementi costituenti gli edifici in muratura, contestualizzati, però, nel difficile ambiente rupestre. Le chiese sono ad aula unica oppure a tre o due navate. Spesso sono concluse da absidi qualche volta preceduti da transetti di ridotte dimensioni. In molte cripte si nota l’accenno di una cupola realizzata con uno scavo lenticolare, mentre il ricordo delle coperture a tetto delle chiese in murature compare nell’uso di soffitti a schiena d’asino rilevabili negli ipogei più complessi. Nel territorio cripte di notevole interesse, ed alcune ancora ben conservate, si rintracciano lungo la Gravina, il Bradano, gli affluenti principali dei due fiumi ed a margine della viabilità più antica. La Madonna degli Angeli evidenzia una tecnica di scavo molto precisa ed un ampio corredo di affreschi. La Madonna dei Derelitti conserva una elegante facciata in muratura. Nelle cripte di S. Falcione e di S. Vito alla Murgia si notano due presbiteri preceduti da un’aula unica. Al Cappuccino Vecchio, il raro impianto a due navate si presenta in tutta la sua complessità ed eleganza. Nella Madonna delle Tre porte, l’elemento significativo oltre che dal residuo corredo di affreschi è costituito dalla pianta a tre navate con absidi contrapposte. Le cripte di Cristo la Selva e di S. Martino, si presentano al centro di un vasto insediamento abitato da pastori. S. Eustachio alla Selva Venusio, pur in parte crollata consente ancora di leggere l’impianto a tre navate con nicchie e cappelle laterali. Altre chiese collocate lungo la viabilità principale costituiscono precisi capisaldi sul territorio a servizio di piccole comunità agropastorali o con funzioni di semplici cappelle rurale. La cripta degli Evangelisti conserva testimonianze di un ampio ciclo affrescato. La Madonna dell’Abbondanza è tra le chiese ipogee più vaste. S. Pietro in Principibus presso l’Appia, evidenzia un elegante impianto a basilica. Il patrimonio delle chiese rupestri nell’area del Parco, costituisce un unicum la cui articolazione e complessità in termini di storia e spiritualità contribuisce a delineare l’identità di un’area molto vasta.
La nuova, significativa svolta storica nello sviluppo urbanistico della città si ebbe nel 1926, quando, con telegramma del 6 dicembre, Mussolini elevava Matera a capoluogo di provincia, rispondendo ad una lunga attesa dei materani e, soprattutto, della sua classe dirigente. Il nuovo ruolo provocò nella città all’incirca le stesse conseguenze e la stessa vitalità edilizia che si ebbe nel 1663. Se allora, del resto, c’era la retorica della Controriforma e della propaganda fides, in regime fascista trionfava la retorica del potere e, quindi, la propaganda politica. Bisognava dare un volto nuovo e moderno alla città, accontentando le aspettative, anche un po’ vanesie, della piccola borghesia cittadina e del suo ceto impiegatizio. E bisognava dare il senso della grandezza. Né si poteva andare a caso. L’intervento statale, perciò, pianificato ed esteso come in qualunque dittatura, obbediva a leggi urbanistiche e architettoniche ben definite, che furono una moda e che, col tempo, a distanza di quasi un secolo, possono considerarsi uno stile. Al pari di Littoria, Aprilia, Guidonia, Pomezia e Sabaudia, Matera fu considerata città tutta fascista, in cui il regime metteva in gioco il suo prestigio e la sua immagine. Ebbe il suo “piccone risanatore” e il suo “sventramento”. Nel 1926, presente il re Vittorio Emanuele III, si era inaugurato l’ospedale di via San Biagio, completamente rinnovato e rifatto; e fu scoperto il monumento ai Caduti. Dieci anni dopo fu ricostruita la facciata della chiesa di San Rocco, adattandola allo stile architettonico dell’ospedale, di cui era cappella. In quella circostanza fu anche colmata e pavimentata la piazzetta antistante, con al centro una aiuola. Nel 1927, il 20 luglio, la città fu allacciata all’acquedotto pugliese. Subito dopo, nel 1928, si avviò la costruzione del Palazzo della Provincia, su disegno dell’architetto Quaroni. Si procedette, quindi, alla ristrutturazione del vecchio convento di San Domenico, per adattarlo a dignitosa sede della Prefettura (1933). Per avere un centro degno di un capoluogo, poco dopo furono abbattute le piccole e cadenti costruzioni tra via delle Beccherie e corso Umberto I (1936). Seguì la edificazione del Palazzo delle Poste (1937), del Banco di Napoli (1939) e del Palazzo Ina (1940). Nello stesso arco di tempo si rifece la scalinata della chiesa di San Francesco d’Assisi (1937) e si pavimentò piazzetta Pascoli (1936), su cui si realizzò la balconata che, da piazzetta Pascoli, guarda sul Sasso Caveoso. Su via Lucana, nel 1929, si era terminata la scuola elementare “Minozzi”, appaltata nel 1913 e mai portata a termine. A cento metri di distanza si ebbe la scuola d’arti e mestieri, intitolata ad Alessandro Mussolini, poi ad Alessandro Volta. Più in là, proseguendo per via Lucana, sorse il palazzo dell’Economia (1934), poi Camera di Commercio, presso la quale si era aperta via don Minzoni (1932). Nel 1932 si inaugurava la tratta ferroviaria Matera - Ferrandina - Montalbano. Un anno dopo, nel 1933, si realizzò il Campo Sportivo. Nello stesso anno si aprì via Emanuele Duni e si abbatté l’arco di San Biagio, per allargare via Tommaso Stigliani. Su via Cappelluti, intanto, nasceva il palazzo della GIL (Gioventù Italiana del Littorio), proprio di fronte al solenne e maestoso palazzo Incis, in cui, appena realizzato, trovò sistemazione la dirigenza fascista. Su ariosa collina sorse la colonia elioterapica, inaugurata nell’agosto del 1938. Un grande contributo alla viabilità per le campagne fu l’apertura di via delle Cererie, che servì ad aggirare il passaggio a livello delle “tre vie”, alla fine di via XX settembre. Essa diventò la prosecuzione naturale della strada di circonvallazione che, nel 1936, unì, inaugurata da Mussolini, i due Sassi, con gran vantaggio per chi vi abitava, soprattutto se contadino. Grazie a quella strada, infatti, gli si offriva la insospettata possibilità di raggiungere la propria abitazione con carro. Né è di poco significato il fatto che, grazie a quella strada di circonvallazione, si coprivano i due citati canaloni o “gran valloni” o “graviglioni”, che attraversavano nel bel mezzo i due Sassi e fungevano da sconcia fogna a cielo aperto. Fu una svolta, sotto l’aspetto igienico-sanitario, di eccezionale importanza. Due anni dopo, nel 1938, nel cuore del Sasso Barisano, e baricentrico ad esso, in piazza Garibaldi, si costruiva un asilo per l’infanzia, del tutto dissonante, stilisticamente, dal contesto, ma certamente di grande interesse sociale, almeno quanto lo fu l’apertura di un Centro materno e di ostetricia, nel 1934. Per un quindicennio, insomma, come attestano anche le storie nazionali, Matera fu tutta un cantiere. Né si dimenticarono i Sassi. È vero che non si conoscevano ancora le pagine di Carlo Levi; ma non si potevano ignorare i risultati di una indagine condotta, nel 1938, dall’Ufficiale sanitario, dott. Luca Crispino, che aveva indicato quei due quartieri come due orrori di miseria, sporcizia e malattia. Per il suo buon nome, il fascismo non poteva far finta di niente. Già un anno prima della visita del Duce, nel 1935, in data 20 ottobre - racconta l’abate Marcello Morelli, - arrivò l’on. Morini, vicesegretario del Partito nazionale fascista, che, “accompagnato da S. E. il prefetto Pirretti e dai gerarchi, scese nel Sasso, entrò nelle caverne dei …contadini, si rese conto delle condizioni igieniche del tutto negative della più parte delle abitazioni dei due Sassi”. Seguì, la mattina dell’8 novembre successivo, l’arrivo improvviso di S. E. Coboldi Gigli, Ministro dei lavori pubblici, che, “accompagnato dal regio provveditore alle opere pubbliche, comm. Colamonico”, e dalle supreme autorità locali (prefetto Pirretti, federale ing. Salvatore Scarantino e podestà ing. Francesco Sarra), “iniziò la visita dei Sassi, entrando nelle case che meglio si direbbero caverne […]. Commovente l’entusiasmo con cui contadini e popolane circondarono Sua Eccellenza, chiedendo, in un pittoresco, ingenuo e affettuoso slancio di devozione e di fiducia, acqua più abbondante, case igieniche, pavimentazione delle strade.”. Due anni dopo, nel rione Piccianello venivano assegnati 60 alloggi popolari ad altrettante famiglie di contadini. Case simili venivano assegnate nel borgo Venusio. Destinate agli impiegati, invece, erano le abitazioni di un civettuolo quartiere di via Gattini, quelle di via Cappelluti e quelle di inizio via Gramsci. Ancora due anni dopo, nel 1940, l’Istituto per le Case Popolari, da poco creato, programmò due fabbricati per complessivi 56 alloggi in rione Cappuccini, 21 nuove palazzine a tipo rurale nel rione Piccianello e 100 altri nuovi alloggi in altri punti della città. Il che - commentava l’abate Marcello Morelli – “decongestionerà i… Sassi e darà al… popolo la casa bella, igienica, salubre, che esso merita, che il regime si è proposto di dargli, a riparazione della ingiustizia secolare”. Intanto, nel 1944, segno dei rapidi cambiamenti occorsi, la sede municipale, a distanza di trecentocinquant’anni, lasciava la vecchia piazza “del Sedile”, fattasi periferica, per trasferirsi in via La Vista, più “centrale” e, perciò, più funzionale.
Nel VII-VIII secolo, entro le mura si arroccava una città o “civita”, che aveva forma triangolare o piramidale. Al vertice c’erano i torrioni di Castelvecchio, collocati sulla cima del colle, ove, poi, sarebbe sorta la Cattedrale. Dal vertice scendevano e scendono due tracciati di mura, che raggiungevano e raggiungono il baratro della Gravina, fermandosi a due casali, uno nella attuale via Fiorentini, l’altro nel rione Pianelle, ad angolo su piazza San Pietro Caveoso. Dal casale di via Fiorentini, fino a rione Pianelle, correva, quale difesa naturale, l’aspro torrente Gravina, con un unico e difficile accesso alla città, attraverso la cosiddetta “porta Pistola”. Accadde, quindi, che su Longobardi, Bizantini e Arabi prendessero il sopravvento i Normanni, i quali, sostenuti e investiti di missione da papa Niccolò II, condussero a termine un progetto di unificazione e cattolicizzazione del Sud. Matera, caduta anch’essa sotto il dominio normanno, fu di volta in volta, nel secolo XI, contea di Guglielmo Braccio di Ferro (1042) e Roberto Loffredi (1064), cui si succedevano Amico dei Loffredi (1080), Alessandro e Alessio, fino al 1133. Seguirono gli Svevi di Federico II e Manfredi, sconfitti e cacciati, nel 1266, dagli Angioini di Carlo I. Matera, essendo parte della terra d’Otranto, veniva assegnata a Filippo, principe di Taranto (1295), figlio del re Carlo II. In questo lasso di tempo, tra i secoli XI, XII e XIII, nell’ambito dei processi di unificazione, cattolicizzazione e latinizzazione perseguiti dai Normanni e continuati dai Normanno-Svevi e dagli Angioini, Matera, unita con Acerenza, conobbe un notevole fermento religioso ed urbanistico. Arrivarono i benedettini e si costruì la chiesa di Sant’Eustachio (1082), su cui, poi, sarebbe sorta la Cattedrale (1230 circa-1270). Contemporanee alla Cattedrale, nello stesso stile romanico-pugliese, sorgevano, fuori delle mura, con annessi monasteri, le chiese di San Giovanni Battista e San Domenico. Nei Sassi, intanto, si allogava il convento di Santa Lucia alle Malve. La città ebbe persino un santo predicatore in san Giovanni de Scalzonibus, comunemente conosciuto come san Giovanni da Matera (1070-1139). Si moltiplicavano, nel frattempo, le chiese rupestri di rito cattolico e latino, che si affiancarono o si sostituirono a quelle di rito greco-ortodosso. (Testi tratti da Matera Siti)